Articolo 3/2020

In spem nisi opportuna – educare alla speranza
Il significato originale ed etimologico della parola educazione viene dal latino e-ducere che significa letteralmente condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto.
L’idea deriva dalla filosofia platonico-socratica, secondo la quale imparare altro non è che un “ricordare” dalla nostra passata esistenza, e che tale conoscenza deve essere “condotta fuori” da noi tramite la maieutica, letteralmente arte del far partorire, ovvero condurre fuori, e-ducere. Con Emerson e le scuole a lui ispirate, invece, l’educazione si prospetta anzitutto come autoeducazione e
come auto coltivazione che dura per tutta la vita.

In questo senso l’educare coincide nel guidare e formare qualcuno. L’educazione va quindi distinta dalla istruzione, intesa come insieme delle tecniche e delle pratiche per mezzo delle quali un individuo viene istruito mediante insegnamento teorico di nozioni di una disciplina, di un’arte, di un’attività. Tuttavia istruzione ed educazione possono fondersi quando si cerca di favorire la comprensione autonoma da parte dalle persone, instaurando con loro un dialogo “esplorativo” e stimolando la loro creatività nell’apprendimento.
Come sempre, prima di scrivere un nostro articolo, cerchiamo di capire cosa ci succede attorno e quali notizie vengono riportate e spesso, solo facendo una ricerca sulle news che escono, ad esempio, da “ristretti orizzonti” o da altre piccole realtà che giornalmente vivono con gli emarginati, prendiamo atto come puntualmente si preferiscono notizie di poco conto a storie di tragedie umane.
Per tale ragione abbiamo pensato di parlare di educazione; educazione rivolta a chi ha sbagliato, educazione per chi cerca di educare chi ha sbagliato, educazione rivolta ai ragazzi invitandoli a istruirsi, a ragionare per formarsi una propria idea quanto più possibile vicina alla realtà.
Il centro di ascolto è frequentato da gente che la sofferenza l’ha conosciuta; chi ha vissuto in carcere, chi ha dovuto attraversare il deserto per poi essere imprigionato nelle galere libiche e approdare in Italia, o in altri porti di Continenti “civilizzati”, solo dopo anni di abusi e soprusi. Noi crediamo di conoscere la realtà rispetto a quello che si cerca di inculcare ai cittadini che semplicemente leggono un giornale, ascoltano i salotti politici o tifano per una ideologia politica; nostro malgrado ci troviamo spesso a indignarci, letteralmente indignarci, per l’abilità con cui una notizia viene manipolata, facendola divenire più o meno grave a seconda della esigenza del momento.

Perciò non vogliamo sforzarci di scrivere cosa succede in quei territori, non vogliamo descrivere le atrocità che nostri fratelli subiscono perché ci sembra di essere insensibili davanti a immani tragedie e allora abbiamo deciso di descrivere tutto con le parole di Samba (la storia verrà pubblicata di seguito) un ragazzo della Nuova Guinea che racconta la sua storia, la storia di tanti.
Samba oggi vive presso il nostro centro di accoglienza, non più come ospite, ma lavorando come operaio, un sopravvissuto che ancora oggi fa fatica a ricordare e a parlare di quanto ha vissuto.
Buona Lettura e soprattutto buona meditazione!

Don AntonVito Scilabra
Carmelo Vetro