5.21 Bambini dietro le sbarre

Spesso, con i nostri articoli ci concentriamo su diversi temi sociali e quando parliamo di carcere lo facciamo parlando dei detenuti, quasi mai però parliamo delle detenute, ecco perché oggi dedichiamo il nostro tempo a loro.

La legge italiana prevede che una donna che debba scontare una pena detentiva, se madre, questa possa farlo assieme al proprio figlio/a costringendolo di fatto a scontare la pena assieme al genitore. Un’atrocità secondo il nostro punto di vista.

Una legge in Italia permette di spostare la detenuta dal carcere, al carcere – nido che altro non è che una vera e propria detenzione, ci sono le sbarre e i cancelli esattamente come nella detenzione “normale” solo che a dare un minimo di colore a un posto così triste sono i sorrisi dei bambini inconsapevoli del mondo in cui vivono e del trauma che probabilmente si porteranno a vita.

Diversa è la realtà degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam), purtroppo pochissimi in Italia, solo cinque (Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari, Lauro e Torino). Si tratta di appartamenti che ospitano mamme con bambini fino a sei anni, nati in seguito alla riforma della legge 62 del 2011.

A differenza del carcere, qui i piccoli vengono presi da volontari alla mattina e portati a scuola. Non ci sono sbarre né divise, ma orari e ritmi rigidi da rispettare.

I piccoli rientrano nel pomeriggio. Si tratta pur sempre di una convivenza forzata tra donne e bambini, sicuramente molto più umana rispetto a quella delle carceri-nido.

Colpevoli di nulla quindi, questi bambini trascorrono i primi anni della loro vita tra le mura di un penitenziario dove il passaggio tra il giorno e la notte è scandito dal fragore delle chiavi di ferro che aprono e chiudono le celle. Dove ci sono solo donne e i maschi sono agenti in divisa che ogni tanto si vedono da lontano. Dove tante volte le stesse mamme soffrono di gravi disturbi o arrivano da situazioni di disagio e disperazione estreme.

Ovviamente le sentenze vanno rispettate, questo dato è incontrastabile, ma bisognerebbe trovare una soluzione perché se da un lato vanno rispettate le sentenze, dall’altro non si può far vivere a piccoli innocenti la dura esperienza del carcere.

Secondo uno studio europeo, la preoccupazione per i figli viene menzionata dalle donne in carcere come una delle cause principali di depressione e ansia, che conduce all’autolesionismo. Lo studio condotto per conto della Commissione europea appunto, conferma che “le perdite e le rotture dovute alla separazione dai […] figli emergono specificamente da tutte le relazioni dei paesi quale fonte primaria di sofferenza in prigione per le detenute“.

Occorre una riflessione molto profonda perché bisogna garantire un’esecuzione penale che rispecchi quanto più possibile la vita esterna scandita dagli stessi ritmi, cosa quasi impossibile, ma la soluzione non può certo essere far vivere ai bimbi la carcerazione.

Ci rendiamo conto che le Istituzioni si ritrovano davanti al grande enigma tra l’incontrastabile dato che è quello di dare corso alle sentenze e dall’altro cercare un modo per coniugare l’esecuzione della pena con i rapporti familiari.

Il Consiglio d’Europa, in una relazione pubblicata già nel 2000, raccomanda lo sviluppo di unità di piccole dimensioni chiuse o semi chiuse con il sostegno dei servizi sociali, in cui i bambini possano essere accuditi in un ambiente a misura di bambino e dove l’interesse del minore sia preminente, pur non trascurando la necessaria sicurezza pubblica.

Ultimo aspetto, ma di certo non meno importante, è come questi bambini vengano educati alla religione; sappiamo che si cerca di dare un insegnamento scolastico più o meno adeguato, ma non esiste, a quanto pare, una vera e propria norma che prevede cosa si faccia per dare loro un insegnamento religioso, forse perché si pensa ci sia tempo giacché i bambini stanno in carcere “solo” fino a 6 anni?

In definitiva, considerando l’universo detentivo maschile o femminile che sia, bisogna dire che i detenuti che hanno fallito come cittadini possono riuscire come genitori e il successo come genitori li può aiutare a diventare cittadini migliori. Buoni legami familiari sono importanti all’epoca del rilascio, in particolare perché un ambiente familiare stabile dove fare ritorno, quindi la preservazione dei vincoli familiari svolge un ruolo importante nella prevenzione della recidiva e nella reintegrazione sociale dei detenuti. Tuttavia, un certo numero di fattori, come condizioni di visita non flessibili e ambienti di visita poco accoglienti, possono perturbare i rapporti familiari e il contatto con i figli. Occorre creare un ambiente che trovi il giusto equilibrio tra le esigenze di sicurezza e i buoni contatti con i familiari a partire dalla sala colloqui, che sia una sala che consenta una certa libertà di movimento e privacy alla famiglia, ambiente accogliente per i bambini… tutto ciò costituisce un importante disincentivo alla recidiva.

Buona Meditazione!

Sac. Antonino Scilabra

Carmelo Vetro

4.21 A proposito di…

Nel nostro precedente articolo abbiamo affrontato la tragicità delle misure di prevenzione personali applicate a chi ha subito una condanna e dopo un periodo più o meno lungo di carcerazione.

In questo senso, per quanto possiamo essere critici per le argomentazioni già trattate, diciamo che riusciamo a trovare un filo di comprensione, ma quando queste misure vengono applicate a persone che magari sono solo “sospettate” di avere commistioni con un mondo che non rispecchia la legalità e quando a queste misure seguono il sequestro dei beni, ecco che tutto ciò sa davvero di tragico e sembra appartenere in un paese confuso, pasticcione per usare un termine assai elementare.

 Ovviamente verrebbe da dire che se “esiste il sospetto” sia giusto prevenire! Noi diciamo no, in Italia esiste la presunzione di innocenza, qualcosa di meraviglioso da applicare accanto al nome di democrazia e giustizia e perciò non si dovrebbe stravolgere la vita personale e professione di un uomo se non si è certi che quella persona vada messa nelle condizioni di non commettere reati.

Dalle inchieste giudiziarie sappiamo che molte si risolvono in un nulla di fatto per intervenuta assoluzione o perché prosciolti (cioè non rinviati a giudizio), ma nel frattempo la persona si è vista spogliata di ogni suo bene, della propria dignità e costretta ad attendere, senza altra possibilità, la fine delle inchieste o la fine di un processo. Legate a stretto giro con tali misure sono i sequestri dei beni patrimoniali, molte aziende virtuose, in nome del “sospetto”, passano dalla gestione privata, alla gestione Giudiziaria. Paradossalmente tale gestione è quasi sempre fallimentare e ciò che ne consegue è la perdita di posti di lavoro e le aziende stesse poste in fallimento.

Non tutti sanno che, se si viene arrestati ingiustamente o indagati, venendo poi assolti o non rinviati a giudizio, il risarcimento non è automatico. Deve essere promosso dalla stessa persona che ha subito l’onda giudiziaria e viene concesso nel caso in cui venga accertato, in questo caso con una attentissima valutazione da parte del Giudice, che la persona ingiustamente arrestata o posta sotto inchiesta Giudiziaria, non abbia indotto in errore, con un comportamento doloso o colposo, il giudice che lo ha arrestato o indagato. Ma come può una persona, risultata innocente, essere causa del suo arresto? È qualcosa di assurdo che supera qualsiasi logicità e comprensione.

Quindi la colpa non è del giudice, è tua perché con il tuo comportamento (ti ricordo che sei innocente) hai fatto sbagliare il giudice.

Purtroppo, il nostro ordinamento è in più parti formato dalla cultura del sospetto, dalla presunzione di persistente colpevolezza che si distingue per i suoi tratti autoritari.

 

Ci chiediamo quindi: quando un privato viene espropriato del frutto del suo lavoro e la sua intera famiglia gettata per strada, senza contare la gogna mediatica, come si può parlare di “giustizia sociale”? Togliere il patrimonio a un innocente è efficienza o ingiustizia?

 

Come Chiesa abbiamo il compito di vegliare e consigliare i comportamenti privati di ogni cristiano nella sfera dell’intimità, ma abbiamo anche l’obbligo morale di mettere in evidenza tutte le discrepanze che un ordinamento giuridico può causare ad ogni singolo cittadino.

Ci fermiamo a riflettere sull’aspetto morale e sessuale, ma siamo molto latitanti sull’aspetto giuridico che coinvolge molte più persone nella nostra società.

Buona meditazione!

Sac. Antonino Scilabra

 

Carmelo vetro

3/21 La libertà…assai vigilata…

Oggi vorremmo affrontare un argomento molto delicato e cercheremo la formula più adatta per far comprendere che solo ed esclusivamente in Italia esistono le cosiddette pene accessorie quali: la Sorveglianza speciale e la libertà vigilata, solitamente applicate a seguito di condanna e dopo un periodo di detenzione più o meno lungo.

Diamo un breve cenno su cosa prevedono questi due istituti per far comprendere perché parliamo di stravolgimento totale della vita: la sorveglianza speciale prevede che una persona stabilisca la propria residenza in un comune entro la quale muoversi. Non potrà uscire di casa entro un dato orario mattutino e dovrà rincasare in molti casi anche alle 18. Inoltre, gli sarà sospesa la patente di guida, gli sarà fatto divieto di frequentare luoghi affollati, dovrà essere reperibile in qualsiasi momento della giornata per le forze dell’ordine e sarà soggetto a controlli notturni mirati ad assicurarsi che non esca dalla propria abitazione in orari non consentiti.

Stesse regole valgono per la libertà Vigilata, ma in più i soggetti sottoposti a tale misura di prevenzione, hanno l’obbligo di presentarsi in caserma anche più volte al giorno per apporre la propria firma su un registro di controllo.

Dunque, è possibile immaginarsi come di colpo la propria vita possa essere “sospesa” e ritrovarsi a vivere un calvario, limitato della propria libertà e la serenità di un’intera famiglia compromessa, specie nelle ore notturne.

Il ragionamento a cui ci ancoriamo è quello di volere capire perché, se esistono all’interno del nostro ordinamento simili pene accessorie, non si predisponga un sistema per cui l’accertamento “dell’attualità della pericolosità sociale” sia fatta in maniera capillare e soprattutto attuale. Diciamo questo perché molto, molto spesso i vari Tribunali nell’accertare l’attualità della pericolosità sociale si rifanno a relazioni storiche e stereotipate della Questura, Tenenza dei carabinieri, Dia, Dda…che molto spesso non possono essere considerate utili ai fini dell’accertamento della pericolosità perché si limitano a narrare la storia processuale del soggetto senza tenere conto del lasso di tempo che ha trascorso in carcere o della positiva  evoluzione intra ed extra muraria, infatti, non si valutano elementi che comunque sono indicatori significativi per capire la tipologia di vita che quel determinato soggetto conduce dal momento in cui viene scarcerato.

In Italia si tende a utilizzare il ricatto della collaborazione con la Giustizia o della dissociazione come unico metodo per potere considerare “cambiata” la persona. Ma più volte la Suprema Corte si è espressa chiarendo che la collaborazione non è il solo ed esclusivo indice da valutare, molte volte infatti la persona decide di non collaborare per paura di ritorsioni nei confronti dei propri familiari, perciò si accetta di soccombere al giudizio negativo da parte dei vari Tribunali giudicanti, senza la possibilità di dimostrare che l’allontanamento da qualsiasi logica delinquenziale può avvenire in altre mille forme.

Riportiamo un breve stralcio dell’ennesima ordinanza di rigetto da parte di un Tribunale siciliano: <<Non ha manifestato successivamente alla sua scarcerazione alcun comportamento, né ha reso alcuna dichiarazione, dai quali desumere la dissociazione del medesimo dal vincolo che lo ha per gran parte della sua vita legato a tale sodalizio criminoso>> ed ancora << durante il lasso di tempo trascorso dall’applicazione della misura (un anno e sei mesi a fronte dei tre anni previsti) sebbene il prevenuto si sia prodigato per la ricerca di un’attività lavorativa stabile per ricostruire una vita all’insegna della legalità e, pur se rispettoso dei limiti della sua libertà personale posti dalla misura della sorveglianza speciale, non ha posto in essere alcuna condotta indicativa di un reale cambiamento assistenziale da leggersi quale autentica rescissione del legame con la famiglia mafiosa alla quale è stato accertato appartenere>>

<< …ai fini della revoca della misura in atto il prevenuto avrebbe dovuto, nelle forme a lui più congeniali, manifestare la sua assoluta distanza dell’associazione mafiosa>>

Dagli stralci sopra riportati appare del tutto evidente come il Giudice abbia formato il proprio convincimento solo ed esclusivamente mediante l’applicazione di regole presuntive nate dal principio del “semel mafioso semper mafioso” che tradotto in siciliano significa <<cu nasci mafiusu mori mafiusu>> metodo di accertamento ormai rifiutato dalla giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite, ma rifiutata anche dai siciliani in generale.

Sappiamo che leggere un articolo del genere è pesante perché richiede impegno, sensibilità e immedesimazione, ma è utile ai fini della comprensione di ciò che parliamo; l’ordinanza riportata è recentissima, narra fatti risalenti a oltre un decennio fa quando la persona in questione aveva 26 anni, ha trascorso 7 anni e due mesi in stato di detenzione, ha subito il 41 bis, revocato poi per l’illegittimità ex tanc del provvedimento, ha intrapreso un percorso risocializzante di rilievo come dimostrato dalle numerose relazioni dell’equipe trattamentali dei vari istituti in cui è stato detenuto (vari istituti del nord Italia) e un percorso universitario notevole. Ad oggi lavora e si dedica al volontariato. Ma nonostante tutto, per i Giudici non è mai abbastanza.

 

Buona meditazione!

Sac. Antonino Scilabra 

2/21 A Proposito di…

A proposito di

In un nostro articolo parlavamo dell’indifferenza e di quanto male faccia a un essere umano dimostrargli quanto sia invisibile agli occhi del mondo.

Spesso parliamo dell’esperienza che maturiamo giorno dopo giorno stando a contatto con gli emarginati di ogni specie, dai detenuti agli ex detenuti, agli immigrati, ai senza tetto, alle donne che hanno subito violenza.

Molte volte ci accorgiamo che chi ha vissuto in carcere anche “solo” per pochi anni, non appena viene a contatto con il mondo esterno e quindi con la luce, i colori, i profumi, i rumori, lo spazio aperto viene colpito da una specie di attacco di panico, l’incapacità di muoversi abilmente in uno spazio aperto e addirittura a deambulare in maniera corretta.

Inoltre, notiamo che la persona che ha subito il carcere non è cosciente di quello che è diventato, non ha contezza del fatto che sembra un alieno in terra.

Osservando questi comportamenti ci siamo chiesti perché Le Istituzioni permettano che il carcere, che dovrebbe essere un luogo che priva della libertà e che dia, allo stesso tempo, cura alla persona dal punto di vista affettivo, psicologico; un luogo che attraverso una importante opera di risocializzazione sia in grado di riconsegnare il reo alla società civile come un nuovo uomo, possano permettere che uomini e donne ristretti nei nostri istituti di pena, si autodistruggono, la loro personalità persa e la dignità calpestata? Non si comprende che così facendo non si porterà la persona a comprendere il proprio sbaglio, anzi, questo si sentirà vittima di un sistema sbagliato.

Avendo conoscenza del carcere abbiamo cercato quindi di interpretare i modi di fare di questi uomini, apparentemente strampalati e fuori dalla consuetudine nei modi di fare.

Il carcere, infatti, è organizzato in modo tale da trasformare uomini pensanti in perfetti robot; è dato scientifico che un uomo costretto a eseguire ogni giorno gli stessi movimenti viene poi condizionato con il mondo esterno, è il caso degli impiegati delle fabbriche costretti a estenuanti ore di lavoro ripetendo gli stessi movimenti ed è il caso dei detenuti costretti a oziare giorno dopo giorno in celle così piccole che è traumatico pensare di organizzare la propria vita in simili condizioni.

Abbiamo parlato con chi il carcere l’ha subito da detenuto o con chi lo vive come volontario prendendosi cura di persone che vivono le condizioni più disparate e quello che viene fuori è uno spaccato di realtà difficile anche solo a immaginarlo.

La difficoltà ad esempio trovata nella deambulazione è dovuta agli spazi assai limitati, immaginiamo di chiudere un animale in gabbia liberandolo dopo anni, non potrebbe mai essere per come vi è entrato, viene nociuta la capacità di comprendere lo spazio e il tempo.

Un’altra cosa che non ha attinenza con nessun senso logico è la mancanza di colori in carcere; si guarda solo il grigio dei muri di cinta, il nero dei blindati, l’azzurro forte delle celle.

È capitato una volta di ospitare, presso il nostro centro, un detenuto in permesso premio e questo si è immerso nella vasca da bagno per ore per potere assaporare quel senso di benessere che può dare  l’acqua calda; una delle tante illogicità del carcere è infatti la mancanza di acqua calda, qualsiasi sia la stagione sono costretti a lavarsi con l’acqua fredda prefigurandosi una vera e propria tortura psicologica.

Abbiamo visto persone fermarsi davanti l’ingresso di una stanza perché anche la loro percezione è compromessa; proviamo a spiegarci meglio…in carcere, all’ingresso di ogni cella, corridoio, doccia, palestra, addirittura in chiesa vi sono dei cancelli in cui ci si deve fermare obbligatoriamente e questo “muro” rimane così impresso nella mente dell’uomo che non si riesce più a vedere la realtà e la realtà è che una volta fuori dal carcere quei cancelli non ci sono fisicamente eppure, psicologicamente, rimangono impressi nella loro testa.

Spiegare quindi cosa accade nella testa di un uomo è cosa assai complicata, facciamo nostre le parole trovate in un libro che provando a descrivere il carcere lo ha fatto così: …Quello che è certo è che: “Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo”

Buona meditazione!

Sac. Antonino Scilabra

 

Carmelo Vetro